Un assessore alla cultura e/o sindaco di un qualsiasi comune è certamente affascinato dai “grandi eventi”, cioè dalla seduzione dell’”uno” che è antitesi della democrazia che, guarda caso, crea gli “uni” (pluralità e soggetti vari). E chi non vorrebbe essere per almeno una settimana “padrone” nel suo territorio del museo Egizio di Torino oppure dell’Hermitage oppure del Louvre oppure della Galleria degli Uffizi o delle migliori collezioni mondiali di arte trasportate per incanto del denaro nel proprio comune? Ma sarà proprio vana la domanda “ma perché?” Forse, se si vuole fare cultura, investire in cultura basterebbe incominciare a ragionare se non ci sia più senso portare i propri cittadini in quei musei con bei charter o pullman e valorizzare di converso il proprio territorio, tanto per dirne una, con i versi dei propri poeti. Ad esempio incisi sulle pietre dei moli, di certi muretti di contenimento, proiettati col laser sulle facciate dei palazzi, appesi con gli striscioni, scolpiti sulle rocce oppure posti su sentieri ecologici con tavolette di legno, con macchine distributrici di informazione come totem senza tabù. Come percorsi del sacro della cultura, come momenti di relazioni fra mondi e ambienti. A Trieste i moli sono lì che attendono, il Carso pure, parco culturale alla ennesima potenza e denegato per ragioni che tutti sanno ma che non dicono: il pregiudizio conflittuale fra genti di lingue diverse. Pochi soldi, tanto arredo urbano, tanta cultura, tanta valorizzazione di propri artisti e poeti. Il respiro del territorio che accoglie tutti, turisti in primis e si fa conoscere. Santa Maria del Guato attende esposizioni permanenti degli artisti, di tutti. Oppure banale dominio di chi già dirige e tende all’uno? In ogni caso l’anelito al grande evento che sia almeno volano di richiesta e di contratto di reciprocità e scambio magari apprendendo ad utilizzare risorse istituzionali (gratis) sparse per le più importanti città del mondo.
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